Quarta parte

         

          UNO SGUARDO AL PERCORSO DI GESU'

 
          Come ha vissuto l’affettività Gesù Cristo figlio di Davide, concepito di Spirito Santo nel grembo purissimo di Maria (Mt 1,16.18-23)? Quali relazioni con la famiglia, con i discepoli e le donne che lo seguivano, con gli amici, il traditore e i suoi persecutori? Come si esprime in lui la dinamica di erôs, philia e agapê? Cosa ci insegna il Maestro su questo tema e cosa comporta per noi seguire le sue orme?

 
          Mi piacerebbe leggere il percorso affettivo di Gesù in parallelo a quello di Davide, per affinità e contrasto, raccontando le pagine dei Vangeli che mostrano come egli viva in modo eminente i nobili sentimenti di amicizia, prossimità e compassione che abbiamo riscontrato in Davide. E nondimeno evidenziare la distanza etico spirituale di questo figlio di Davide che percorre la via della messianicità regale sconvolgendone gli schemi: in termini di radicale non violenza, facendosi ultimo e servo di tutti, amante fino a dare la propria vita.

 
          Accenno semplicemente a tre piste di sviluppo che riguardano la corporeità, la psicologia e la spiritualità dell’amore nel senso che coinvolgono corpo/carne, anima e spirito, erôs, philia e agapê.

 
          Quando Gesù a poco più di trent’anni si presenta sulla scena pubblica è un uomo capace di relazioni affettive mature e liberanti. Sa dialogare con uomini e donne di varie categorie sociali, è appassionato predicatore del Regno di Dio e si prende cura di tutto l’uomo, anima e corpo: tocca (perfino i lebbrosi!) e si lascia toccare, baciare, profumare…

 
          Colpisce la sua profonda umanità. Non umilia mai l’interlocutore, uomo o donna che sia. Come Davide è pieno di gioia per Dio e di amore attraente. Ne sono affascinati in particolare i lontani e gli oppressi che si sentono accolti, interpellati, mai giudicati: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e caricati di troppo peso e io vi darò riposo” (Mt 11,28).

 

“Se il tuo corpo è tutto luminoso…”
          Si potrebbe leggere l’intero insegnamento di Gesù sotto il profilo dell’affettività. Muovendo dal Discorso del Monte vorrei notare anzitutto la gioia che sposa il coraggio di amare secondo Dio.
In realtà l’esordio di Gesù è un grido di gioia: makàrioi, “beati”! Immagino un volto da giullare prima ancora dei tratti solenni del Maestro a cui ci hanno abituato gli splendidi mosaici bizantini e le sante icone. In realtà l’evangelista Matteo riesce a tenere insieme la dimensione solenne del Maestro che siede in cattedra sul monte, con un volto luminoso, che sprizza gioia, perché non si può dire “beati, felici!” con la faccia seria e tanto meno triste. Il figlio di Davide e di Maria erompe in un grido di giubilo perché ha capito il gioco di Dio, il suo personale coinvolgimento a fianco dei poveri e degli afflitti. Le beatitudini sono un nuovo modo di vedere, ma anche di sentire e di amare la vita.

 
          La parola usata da Gesù per designare la situazione di beatitudine (makàrios in greco, ashrè in ebraico) esprime una felicità profondissima, la gioia che sta a fondamento dell’esistenza e viene da Dio.
[17] La lingua greca utilizza il vocabolo eudàimon per la gioia che si può ottenere da un soddisfacente vivere umano, la gioia dei sensi e dell’amicizia. Ma beati non sono semplicemente i contenti o i fortunati. Gesù dà spazio alla libertà, alla gioia di chi riesce a vedere le cose da un altro punto di vista, quello di Dio e del suo Regno.

 
          In questa prospettiva vanno comprese le indicazioni che egli impartisce in ordine a una “giustizia più grande” (Mt 5,20), la quale include il coraggio della riconciliazione e del dominio di sé, la rinuncia alla violenza e perfino l’amore verso i nemici (5,21-48). Un allargamento di campo che si appella al Dio della creazione, il quale mostra di amare non solo i buoni ma anche i malvagi. Il sole sorge infatti su tutti, giusti e ingiusti, buoni e cattivi. Su questa esperienza tanto positiva quanto universale, Gesù fonda il principio base della sua etica di amore: la imitatio Dei. “Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano affinché diventiate figli del Padre vostro…”. Notiamo che qui la figliolanza divina è vista in divenire, come esigenza etico-esistenziale. La parentela la si riconosce dalla somiglianza… In altre parole il volto divino si riflette in uomini e donne che nei solchi violenti della storia vincono l’odio con l’amore: “beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”! Diventare figli e figlie di Dio è allora compito che ti appartiene, impegna le tue scelte di amore.

 
          Gesù proclama “beati/felici i puri di cuore”. Come custodire tale gioia nell’ambito della reciprocità coniugale? Essa esige di evitare non solo l’adulterio condannato dalla Legge, ma più radicalmente il desiderio stesso dell’adulterio che contamina il cuore uccidendo la bellezza e la verità dell’amore: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna…” (5,27-30). Gesù parla per immagini, con linguaggio figurato e con quel gusto del paradosso caro ai semiti: è preferibile cavarsi un occhio o tagliarsi una mano piuttosto che perire interamente!

 
          L’occhio e tutto il corpo deve essere luminoso: “La lucerna del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). Luca riporta in altro contesto questo detto del Signore e lo esplicita così: “Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso, come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore” (Lc 11,35-36).

 
          Viscere di compassione
         
L’affettività di Gesù trova espressione forte nel suo pathos per il popolo di Dio. Il Gesù che scende dalla montagna richiama il Dio dell’esodo che scende per liberare il popolo oppresso (Es 3,7-8). Il Maestro divino scende dal monte per farsi carico di tutte le sofferenze e infermità (Mt 8,17) e chiama quanti lo seguono a fare altrettanto. La compassione è l’anima della sua missione: “Vedendo le folle fu preso da compassione per loro perché erano stanche e prostrate come pecore senza pastore” (Mt 9,36; cf. Mc 6,34).

 
          Gesù coglie la situazione in profondità, non vede semplicemente una folla, ma singole persone, ciascuna con i suoi problemi. Sembra fotografare anche il presente, una sorta di radiografia compendiata in due parole: “stanche e sfinite”, ed è preso da un fremito. Come una madre per la creatura del suo grembo: un’emozione profonda, viscerale, bene espressa dal verbo splanchnìzomai che allude alle “viscere” (splànchna) e in particolare al grembo materno (come il corrispondente ebraico rahamìm). Fremono in Gesù le viscere materne di Dio, la sua divina misericordia.
[18]

 
          Il medesimo verbo descrive la compassione del buon samaritano e del padre misericordioso (Lc 10,33 e 15,20), due personaggi che dipingono al vivo cosa significa lasciarsi ferire il cuore. Nel primo caso l’interlocutore di Gesù, un esperto della Legge, aveva già risposto bene alla questione sul che fare per avere in eredità la vita eterna. Aveva affermato il primato dell’amore di Dio e del prossimo (Lc 10,27-28). Ma restava una questione aperta: “e chi è il mio prossimo”? Chi devo amare?

 
          Gesù non disquisisce sul piano teorico, racconta storie: una splendida parabola che muove da un’aggressione sulla strada infida che da Gerusalemme scende a Gerico. Un uomo viene assalito dai briganti, depredato e lasciato a dissanguare sulla strada. E’ la prima di tre scene che potrebbero intitolarsi:

 
- l’uomo malmenato 10,30
- l’uomo trascurato 10,31-32
- l’uomo aiutato 10,33-35
 

L’identità della vittima è lasciata nell’ombra, e non a caso. Ha poca importanza dal punto di vista di Gesù per il quale conta semplicemente l’uomo nella sua situazione di bisogno.

 
          La seconda scena invece è più ampia, con doppia serie di personaggi (sacerdote e levita) ma identico schema: “avendo visto, passò dall’altra parte”. Ripetono entrambi il medesimo rito: vedono e passano oltre. Il verbo anti-par-êlthen rende quasi visivo l’ampio giro che devono fare per scansare quell’uomo insanguinato che ingombra il cammino… Per quali ragioni si astengono dal fare alcunché? Paura di contaminarsi? Ma l’incappato nei briganti non è un cadavere che contamina la purità rituale, è ancora vivo e chiede aiuto… Inoltre i due non stanno andando al Tempio ma semmai vi ritornano, poiché scendono entrambi da Gerusalemme. Hanno dunque offerto il sacrificio, ma non hanno imparato la misericordia… (cf. Os 6,6 eMt 9,12).

 
          Dopo la brutta figura del sacerdote e del levita, sarà un semplice giudeo a dar prova di autentico amore del prossimo? Niente affatto. Non è un giudeo che si ferma “preso da compassione”, ma un odiato straniero, un samaritano! Egli però, diversamente dai due che lo hanno preceduto, si lascia ferire il cuore (esplanchnisthê) e tutto il resto viene come di conseguenza: una cascata di amore indicata da sette azioni puntuali. Si avvicina (proselton), si china sulle ferite, vi versa olio e vino, carica l’uomo sul proprio giumento, lo porta all’ostello più vicino e “si prende cura” di lui. Ecco l’amore corposo che Gesù vive e ci propone. Un amore che si lascia ferire il cuore e si fa carico dell’altro.

 

Amico di pubblicani e peccatrici
          E’ solo per caso che nella redazione di Luca la parabola del buon samaritano sia la prima delle quindici parabole che Gesù racconta strada facendo verso Gerusalemme? Non direi. Infatti quasi alla fine del viaggio, quando Gesù arriva a Gerico, troviamo un’altra pagina soltanto di Luca: l’incontro con Zaccheo, il pubblicano (19,1-10). Quel buon Samaritano che è il Cristo, scende fino a Gerico per cercare e salvare ciò che era perduto!

 
          In Gesù si manifesta la compassione di Dio per l’umanità sofferente e disorientata e nondimento la straordinaria emozione della gioia divina. Dio trova la sua gioia nel prendersi cura dell’uomo e della donna, nel ritrovare ciò che si era perduto (cf Lc 15). Gesù ci ha fatto vedere al vivo, nella sua umanità, un Dio che ha viscere di pietà. Non un Dio freddo e distaccato, chiuso nella torre d’avorio della sua immutabile volontà, ma piuttosto un Dio fortemente coinvolto nella storia degli uomini, un Dio perdutamente innamorato delle sue creature, che non desiste dal cercarle.

 
          Gesù percorre la via del dialogo e della prossimità. Si potrebbe leggere l’intero vangelo dalla prospettiva dell’amicizia che Gesù coltiva liberamente, con uomini e donne. E’ amico di persone oneste e ragguardevoli come gli amici di Betania (in Luca l’episodio di Marta e Maria segue immediatamente la parabola del buon samaritano), ma anche di noti pubblicani e donne di mala fama. Spesso è Gesù che prende l’iniziativa e si fa mendicante di amore: così al pozzo di Giacobbe con la donna di Samaria (Gv 4,5-26), così a Gerico con quel pubblicano che lo guardava incantato dal sicomoro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5).
Gli osservanti della Legge lo denigrano come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34), un’espressione che appare in tutta la sua forza sullo sfondo dell’Antico Testamento dove un’accusa simile è meritevole di morte.
[19] Ma Gesù non esita a chiamare al suo seguito anche Levi-Matteo, il gabelliere di Cafarnao, e non disdegna di sedersi alla sua tavola in compagnia di tanti amici pubblicani: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13).

 
          Ma accetta inviti a pranzo anche dai farisei, ama davvero tutti. Tra le pagine indimenticabili, l’incontro con la peccatrice proprio alla tavola di Simone il fariseo, una scena che andrebbe gustata nei dettagli, tra le più hard del vangelo, sia per il contesto in cui avviene che per l’imbarazzante complicità del Maestro (cf. Lc 7,36-50). Luca, da artista del racconto, riesce a dipingere la scena e i personaggi con grande maestria, giocando sulla forza dei contrasti. L’imprevisto mette in luce due comportamenti contrapposti smascherando la verità dei sentimenti. La donna – una peccatrice ben nota nella città – si gioca in prima persona e in massimo grado, fino in fondo. Determinata e concentrata in ciò che intende fare, entra in scena da protagonista, con tutto l’occorrente per dar prova di sé: “un alabastro di unguento”. Non si cura degli sguardi dei commensali, è tutta presa dai sentimenti che esterna ai piedi del Maestro dove piange tutte le sue lacrime: un bagno di lacrime! E quando ha finito il pianto e si rende conto del diluvio sui piedi del Maestro, li asciuga coi lunghi capelli, li bacia e li profuma col suo unguento prezioso… Neppure una parola, ma lacrime, baci e carezze.

 
          E Gesù lascia fare. Non interrompe quel pianto, né quei gesti sinceri impregnati di eros. Anzi apprezza l’espressione genuina della donna, lamentando con Simone il comportamento contrario: “Tu non mi hai dato un bacio, lei invece…” (Lc 7,45).

 
          La scena, come dicevo, offre vari elementi per una lettura erotica, ma Gesù l’addita come donna che incarna l’agape: êgapêsen poly, “ha molto amato”. Dio non disdegna l’eros, lui che ha viscere di compassione. E molto è disposto a perdonare dove incontra passione e pentimento sincero.

          Gli amici di Betania e l’ultimo convito
          L’evangelista Giovanni indugia nel presentare le relazioni di particolare affetto che lo legano agli amici di Betania.

 
          Marta è la signora di casa, accogliente e premurosa (Lc 10,38-42). In Giovanni è anche la prima che corre incontro al Maestro e fa una splendida confessione di fede: “Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che viene nel mondo” (Gv 11,27).

 
          Lazzaro è l’amico. Basta questa parola per evocare la profondità della sua relazione con Gesù e l’attesa implicita nel messaggio: “ecco, il tuo amico è malato” (Gv 11,2). E quanto Gesù gli fosse affezionato lo dicono apertamente le sue lacrime, non più trattenibili quando Maria gli si getta ai piedi e gli ripete: “se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. L’evangelista annota che Gesù si commosse profondamente e scoppiò in pianto anche lui, tanto che i presenti dicevano: “Vedi come lo amava!” (Gv 11,32-35).

 
          E Maria? E’ inseparabile da quel suo gesto amante che la caratterizza in maniera emblematica agli occhi della comunità cristiana: “Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli” (Gv 11,2). La scena viene narrata in dettaglio nel capitolo successivo, nel contesto del banchetto festoso per la risurrezione di Lazzaro, avvolto da un presagio di morte (“sei giorni prima della Pasqua”) che solo Maria intuisce: splendida icona di Chiesa amante (Gv 12,1-3).

 
          Infine – e siamo all’ultimo convito - una sorprendente intimità la rivela il discepolo amato, che non si fa alcun riguardo di poggiare la testa sul petto (stêthos) di Gesù, sotto lo sguardo degli altri (Gv 13,25). Solo così, in questa posizione di singolare intimità, può porre l’inquietante domanda: “Signore chi è?” e ascoltare la singolare risposta del Cristo, che giocando ancora una volta sui simboli evidenzia tutta l’amicizia nei confronti del suo stesso traditore: “E’ colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò” (13,26).

 
          Amore corposo quello del Cristo, che dà il cibo e si lascia mangiare (vedi Gv 6) e intinge il boccone dell’amicizia anche per il discepolo che con un bacio lo tradirà (Mt 26,49-50).

          Il pastore bello che depone la propria vita
          “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare (deporre) la vita per i propri amici”, dichiara Gesù ai suoi discepoli nell’ultima cena (Gv 15,13). E lui lo fa. E’ il pastore bello che depone (tithemi) la propria vita per le sue pecore (Gv 10,11). Cosa del tutto inconcepibile nel quadro dell’esperienza umana, per quanto un pastore sia amante delle sue pecore. E’ la massima solidarietà: una vita «per» (hyper). Nel quarto vangelo la preposizione hyper si trova quasi sempre in un contesto sacrificale: Gesù dà la sua carne per la vita del mondo (Gv 6,51); depone la propria vita per le pecore (10,11.15); muore e non per la nazione (ebraica) soltanto, ma per radunare i dispersi figli di Dio (11,50-52). Notiamo in particolare un forte collegamento con il discorso sul pane di vita:

 
- Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (6,51)
- Il buon pastore dà la sua vita per le pecore (10,11.15).
 
          Un essere-per che significa piena disponibilità e dedizione, fino a dare (letteralmente “deporre”) la propria vita. Come viene deposta la veste per lavare i piedi. Veste e vita si richiamano nel linguaggio simbolico di Giovanni. Quel deporre le vesti per lavare i piedi, dice anche il senso del suo deporre la vita che Gesù afferma di compiere liberamente:


“Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso, poiché ho il potere di deporla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,17-18).


          Uno che può dare e riprendere non è un servo: fa il servo ma è un signore, come viene esplicitato quando Gesù, dopo aver lavto i piedi ai discepoli dichiara: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono” (Gv 13,13). La sovrana libertà di Gesù nel donare la vita per le sue pecore costituisce il “comando” che egli ha ricevuto dal Padre e anche il motivo per cui il Padre lo ama.

 
          La figura che nella nostra esperienza maggiormente si accosta a questo dare la vita del pastore è quella della madre che è totalmente per, spazio aperto, dono gratuito, ascolto amorevole. “Io sono il pastore quello bello – dice Gesù - conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e depongo la vita per le pecore (Gv 10,14-15).

 
          Nel linguaggio biblico la “conoscenza” non si limita alla sfera intellettiva ma si estende alla vita affettiva fino a includere l’intimità che lega lo sposo alla sposa. Il Signore ha conosciuto il suo popolo con la passione di un uomo per la donna del suo cuore (Os 2,18-22; Is 54,4-8), con la tenerezza di una madre per il frutto delle sue viscere (Is 49,15).

 
          L’ascolto del Padre che tanto ama il mondo (Gv 3,16) rende Gesù capace di un incomparabile ascolto di ciascun uomo e donna nella unicità dell’essere e della situazione esistenziale. Questo aspetto è bene evidenziato anche nell’incontro del Risorto con la Maddalena, la quale riconosce Gesù proprio quando lui la chiama per nome: “Maria!” (Gv 20,16).


Continuerà

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

 


Note

[17] Nella Bibbia, compreso il Siracide ebraico, troviamo questo grido di felicità 52 volte, di cui 26 nei Salmi. Il termine “beati” è diverso da “benedetti” (euloghemènos in greco e barùk in ebraico) e non coincide neppure con le categorie della felicità umana.

 

[18] Il verbo splanchnìzomai ricorre cinque volte in Matteo e quattro hanno per soggetto Gesù: 9,36; 14,4; 15,32; 20,34. L’altra occorrenza è in 18,27 nel contesto della parabola del servo spietato e il suo uso non è meno significativo: designa infatti quel kyrios “signore” compassionevole dietro il quale è facile scorgere Dio stesso. È degno di nota che nella versione greca dell’Antico Testamento, detta dei Settanta, il termine splanchnìzomai non viene utilizzato per Dio, forse per evitare un antropo- (meglio un gineco-) morfismo, mentre il Nuovo Testamento lo usa volentieri per Gesù.

 

[19] E. Bosetti - A. Niccacci, “L'indemoniato e il festaiolo. Lc 7,34-35 (Mt 11,18-19) sullo sfondo della tradizione sapienziale biblico-giudaica”, in: F. MANNS - E. ALLIATA, ed., Early Christianity in Context. Monuments and Documents, Jerusalem: Franciscan Printing Press, 1993, 381-394.