Olimpiade e Giovanni Crisostomo

Amicizia e collaborazione nel ministero pastorale

di Giuseppina Battista sjbp

 

Il volume delle Lettere a Olimpiade di S. Giovanni Crisostomo, ci offre l’occasione per riflettere sulla collaborazione pastorale. Il confronto con la storia, maestra di vita, sarà senz’altro utile per illuminare il nostro presente.

 

Introduzione

La recente Lettera Apostolica «Mulieris dignitatem» di Giovanni Paolo II sulla dignità e la vocazione della donna ha suscitato molto interesse e riacceso le discussioni sul ruolo della donna nella Chiesa oggi (1). Anch’io, come donna, credente e religiosa, mi sento interpellata e con queste pagine vorrei offrire il mio modesto contributo al dibattito in corso.

 

La ricerca è volutamente limitata al ruolo della donna collaboratrice nel ministero pastorale. Il motivo è semplice: appartengo a una congregazione religiosa, le Suore di Gesù buon Pastore (Pastorelle), il cui carisma è la collaborazione pastorale nella comunità ecclesiale (2).

 

Per svolgere le mie riflessioni ho preso in considerazione l’assidua collaborazione di Olimpiade, «membro e diaconessa (3) della santa, cattolica e apostolica Chiesa di Dio» (4), con il vescovo Giovanni Crisostomo nella Chiesa di Costantinopoli. Il perché della scelta è pre­sto detto: Olimpiade è una donna, la cui grandezza è testimoniata dalle fonti che ce ne parlano (5); la sua cooperazione all’azione pastorale era ufficialmente riconosciuta nella Chiesa di Costantinopoli; è una donna «diaconessa» della sua chiesa.

 

Una «donna» diaconessa e un vescovo, sostenuti da una fraterna amicizia, collaborano nella comunità ecclesiale, per la comunità ecclesiale. Se già nelle comunità primitive, in concreto in quelle paoline, notiamo la presenza di donne «diaconesse» (6), è nelle chiese dell’Oriente, in particolare nella Chiesa bizantina e in quella siriaca (nestoriana, monofisita e maronita), che il loro ruolo e la loro attuazione erano ampiamente riconosciuti (7). Chiara è al riguardo la raccomandazione della Didascalia degli Apostoli al vescovo: «Perciò, o vescovo, costituisciti operai di giustizia che aiutino (...) il tuo popolo per la vita. Quelli che da tutto il popolo ti piacciono eleggili e costituiscili diaconi: l’uomo perché prenda cura delle molte cose necessarie, la donna per il ministero presso le donne. Vi sono infatti delle case nelle quali non puoi mandare il diacono per le donne, a causa dei pagani; vi manderai diaconesse. Anche per molte altre cose è necessaria una donna diaconessa... Perciò diciamo che è molto desiderabile e sommamente necessario il ministero della donna diaconessa, perché anche il Signore nostro Salvatore, era servito da donne...» (8).

 

 

1. Olimpiade, diaconessa della Chiesa di Costantinopoli

«Alla mia signora, la reverendissima diaconessa Olimpiade, tanto cara a Dio, saluti nel Signore. Giovanni vescovo» (9).

 

Questa praescriptio o protocollo epistolare, dall’andamento semplice e maestoso al tempo stesso (10), introduce, nella maggior parte dei manoscritti, la lettera che gli antichi editori (Savile, Fronton du Duc, Montfaucon e Migne) collocano per prima (11). Vi leggiamo il nome dei due corrispondenti, il loro status ecclesiale: vescovo il mittente, diaconessa (12) la destinataria e il fondamento del legame profondo che li unisce: il Signore. Le 17 lettere, «le più personali e le più ricche di particolari» (13) dell’intero epistolario, si rivelano una fonte preziosa per cogliere aspetti e sfumature della sincera e calda amici­zia tra i due, che la lontananza dell’esilio ha rafforzato e svelato nella sua salda base spirituale, e per conoscere meglio il Crisostomo nelle vesti di direttore di anime.

 

Olimpiade e Giovanni non sono vissuti nella solitudine, ma nel vivo di una città, Costantinopoli, capitale dell’impero d’Oriente, in cui forti e incontrollate erano le passioni politiche e religiose, frequenti e deleterie le connivenze interessate tra il potere imperiale e quello ecclesiastico (dai monaci su fino ai vescovi). Fedeli l’una e l’altro all’esigenza evangelica, non avidi di potere e di ricchezza e rifuggenti da ogni compromesso, hanno combattuto insieme con coraggio la buona battaglia, non badando alle conseguenze rischiose della loro intransigenza ma subendole con sofferta accettazione. L’amore a Cristo e alla sua Chiesa li ha uniti nel comune impegno ecclesiale ed è stato la causa della loro separazione fisica finale, che è costata tanto a entrambi.

 

1.1 Vita di Olimpiade

Olimpiade, nata a Costantinopoli tra il 361 e il 368 (14), discendeva da una famiglia nobile (15). Il nonno paterno (16), Flavio Ablavio, cretese (17) di umili origini (18), seppe farsi strada tanto da entrare, anche perché cristiano, nelle grazie dell’imperatore Costantino, di cui divenne un ascoltato consigliere, e da essere nominato console e, a più riprese, prefetto del pretorio per l’Oriente (19). Fu ucciso, insieme a parenti di Costantino e ad altri illustri personaggi della sua corte, dopo i «tre mesi di strano interregno» (20), seguiti alla morte dello stesso Costantino, dai soldati di stanza a Costantinopoli, sollevatisi perché l’impero rimanesse ai soli figli dell’imperatore morto (21). Il padre, Seleuco (22), pagano pieno di zelo (23), amico di Giuliano (24), fu con lui, non ancora Cesare, in Bitinia (25); nel 362 fu fatto sommo sacerdote della provincia di Cilicia (26) e fu annoverato da Giuliano, ora imperatore, tra i comites (27). Dopo un periodo trascorso alla corte, accompagnò Giuliano nella spedizione contro la Persia di Sapore II. Nel 364/65 fu condannato a pagare una forte multa e confinato nel Ponto (28). Morì dopo il 365 (29).

 

La zia Olimpiade, figlia di Ablavio, che era stata fidanzata al più giovane dei figli di Costantino, Costante, alla morte di questi aveva sposato il re dell’Armenia, Arsace (30).

 

La piccola Olimpiade perse ben presto i suoi genitori (31), rimanendo così orfana (32). Che suo tutore fu Procopio, prefetto di Costantinopoli (33), che l’affidò a Teodosia, sorella di Anfilochio (34), vescovo di Iconio, perché si prendesse cura della sua educazione (35), che anche Gregorio di Nazianzo, al tempo del suo episcopato costantinopolitano, possa aver contribuito all’educazione religiosa di Olimpiade (36), sono tutte affermazioni che gli studiosi (37) ripetono e che si reggono sul presupposto che il destinatario delle lettere 193 e 194 di Gregorio di Nazianzo (38) sia appunto il Procopio di cui sopra e sull’identificazione della nostra Olimpiade con l’Olimpiade del carme e delle lettere di Gregorio in questione.

 

L’editore recente di queste lettere, il Gallay (39), è assai chiaro al riguardo. «Nelle edizioni finora apparse - scrive -  Procopio è il destinatario di entrambe le lettere (193-194, aggiungiamo noi). Ciò però è un errore della editio princeps, in cui le lettere 193-194 erano precedute da una lettera a Procopio. L’editore ha posto distrattamente tō autō innanzi alla lettera 193, che con tale indicazione venne attribuita a Procopio insieme alla lettera 194... In compenso sembra che si possa identificare Olimpiade, la giovane sposa menzionata nella lettera 193, con l’Olimpiade, a cui Gregorio indirizza una poesia in occasione del suo matrimonio (PG 37, 1542ss.)... Alcuni hanno pure creduto che Olimpiade fosse quella nobile cristiana, che in quegli anni aveva un ruolo di primo piano nella Chiesa di Costantinopoli. Ma poiché suo padre si chiamava Seleuco ed era già morto prima delle sue nozze, Vitaliano (40) dovrebbe essere non il padre ma il tutore, una supposizione che crea difficoltà» (41). Quali? Il Gallay non lo dice.

 

A noi qui non interessa risolvere la questione. Per il nostro scopo è sufficiente dire che i dati sparsi nelle lettere del Crisostomo, pur con le esagerazioni dovute alla stima e all’affetto e anche alla retorica, permettono di delineare una figura di donna, che, nata e allevata tra gli agi, non se n’è lasciata sedurre e si è imposta «fin dall’inizio» una severa ascesi (42). L’esortazione di Gregorio di Nazianzo alla sua Olimpiade: «Ti stia a cuore la modestia e la bellezza sia oggetto di ammirazione anche per occhi chiusi» (43), pure se essa non fosse l’Olimpiade di cui ci stiamo occupando, ha costituito per costei una massima di vita fedelmente osservata (44).

 

Intenso e continuo deve essere stato lo studio delle Sacre Scritture, «il grande mezzo di formazione intellettuale e morale» per le donne, in quest’epoca (45), e «alla dottrina delle divine Scritture» conformò la sua vita e «grazie a esse fu resa perfetta» (46). Tale amorosa frequentazione della Parola di Dio spiega forse la dedica elogiativa che Gregorio Nisseno ha premesso alle sue Omelie sul Cantico dei Cantici (47) e le molte citazioni scritturistiche, di cui il Crisostomo ha disseminato le lettere a lei indirizzate.

 

Palladio, da parte sua, afferma che Olimpiade «seguì la scelta di Melania, guardando a lei con venerazione e procedendo sulle sue orme» (48). E di Melania Seniore il vescovo di Elenopoli mette in risalto il distacco dai beni, la grande generosità nel sovvenire alle necessità degli asceti del deserto, delle chiese, dei monasteri e dei poveri, la vita ascetica e, in particolare, l’amore per le Scritture (49). Che le due donne si siano conosciute o meno (50), si può discutere; è chiaro invece il ricordo di Olimpiade che Palladio vuole conservare.

 

La Vita anonima, per finire, vede in Tecla, la vergine eroina dell’apocrifo Atti di Paolo e Tecla (51), il modello seguito da Olimpiade. Nello schizzo biografico offerto si esalta di Tecla il disprezzo delle ricchezze, la scelta di rimanere vergine per il «vero Sposo», la fedeltà agli insegnamenti di Paolo e l’amore vivo per le «Scritture ispirate da Dio» (52). La Albrecht ritiene possibile che la stessa Olimpiade si sia proposta Tecla come modello da imitare, dal momento che sia il Crisostomo sia Gregorio di Nazianzo ne conoscevano le tradizioni (53).

 

E da condividere l’osservazione della Militello: «In certo qual modo dunque, l’ideale di vita a cui Olimpiade è legata sin dalla giovinezza è assimilabile a quello di cui fruisce Crisostomo nell’ascheterion di Diodoro» (54).

 

Giovane, ricca, colta, Olimpiade era quello che si dice un ottimo partito. Andò sposa, probabilmente sul finire del 384 o ai primi del 385, a Nebridio, imparentato con l’imperatore Teodosio I (55), di cui fu comes rerum privatarum (56) dal 382 al 384 e dal quale fu nominato prefetto di Costantinopoli (57). L’unione matrimoniale, su cui le fonti sorvolano (58), non durò a lungo: Nebridio morì una ventina di mesi dopo le nozze (59). È più che ovvio pensare che la disgrazia dovette causarle un immenso dolore; il seguito degli eventi tuttavia ci mostra un’Olimpiade, che ha saputo superare cristianamente la nuova sventura e che è uscita dalla prova rafforzata nella sua fede in Dio.

 

L’imperatore Teodosio, a conoscenza del suo stato vedovile (60), volle darla in moglie (61) a un suo parente, di nome Elpidio, spagnolo di nascita (62). Olimpiade, che evidentemente aveva deciso di non risposarsi più, leggendo nella sua sventura un’indicazione della volontà divina, rifiutò di accedere alle ripetute insistenze dell’imperatore. Le parole che in quella occasione rivolse a Teodosio, piuttosto contrariato dal rifiuto, lasciano trasparire la sua serena decisione: «Se il mio Re (la Vita aggiunge: il Signore Gesù Cristo) avesse voluto che vivessi insieme a un uomo, non mi avrebbe tolto (la Vita inserisce: subito) il primo; ma poiché sapeva che ero inadatta alla vita a due, essendo incapace di piacere a un uomo, liberò lui da questa catena e liberò me da questo giogo assai pesante e dalla schiavitù maschile, imponendomi il suo giogo leggero della continenza» (63).

 

Per tutta risposta l’imperatore affidò al prefetto di Costantinopoli, Clementino (64), l’amministrazione dei beni della giovane vedova, finché non avesse compiuto i trent’anni (65). Clementino poi, da zelante funzionario, si credette in dovere, istigato a ciò da Elpidio, il marito mancato (66), di porle altre limitazioni per fiaccarne la volontà, proibendole di «incontrarsi con i vescovi più illustri e di frequentare la chiesa» (67).

 

La reazione di Olimpiade alle misure prese è l’ulteriore dimostrazione di una condotta di vita che viene da lontano. Piena di gioia (cf. Mt 5, 11-12) e dopo aver reso grazie a Dio, espresse a Teodosio la sua riconoscenza e l’esortò, non ironicamente, a essere ancor più esigente. «Tu, Signore (la Vita aggiunge: Imperatore) - gli dice -, hai dimostrato verso di me misera una bontà degna di un imperatore e che conviene a un vescovo, ordinando che mi fosse evitato questo carico assai pesante, la cui amministrazione m’impensieriva; ma farai meglio comandando che esso venga distribuito in dono ai poveri e alle Chiese. Da molto tempo, infatti, ho pregato (la Vita, codici P e F: ho pregato molto) che si allontanasse da me la vanagloria che può sorgere dal fare elargizioni, perché non trascurassi la ricchezza ulteriore, occupandomi della materia» (68).

 

Nell’esercizio della carità può nascondersi insidiosa la tentazione sottile della «vanagloria», che spinge chi si è dato a una vita virtuosa a rendere pubbliche le sue lotte e a ricercare la gloria umana (69). Olimpiade ha intuito molto presto questo pericolo e si è premunita con la preghiera. Il Crisostomo coglierà tale suo desiderio di non apparire e lo metterà in risalto: «Ma tu - le scriverà -, per accrescere il valore di queste fatiche e per procurarti un maggior numero di premi, hai aggiunto le corone dell’umiltà, affermando d’essere lontana da tali trofei quanto i morti dai vivi» (70).

 

Il suo modo di vivere, «il suo entusiasmo per la vita ascetica» (71), giunsero all’orecchio di Teodosio, che, al suo ritorno dalla vittoriosa campagna d’Occidente contro l’usurpatore Massimo e a sostegno di Valentiniano II (72), ordinò che potesse disporre di nuovo liberamente dei suoi beni.

 

Ora «la vasta distesa della sua carità» (73) può straripare e di fatto, stando alla Vita (74), straripò. In modo generico si narra che «soccorse tutti semplicemente e senza fare distinzioni» (75) e, più in dettaglio, che donò alla grande Chiesa cattolica e apostolica di Costantinopoli, nella persona del suo vescovo (76), 10.000 libbre d’oro, 20.000 d’argento, tutti i beni immobili che possedeva in Tracia, Galazia, nella Cappadocia prima e in Bitinia e una serie di proprietà nella capitale (77). La sua prodigalità - è il termine esatto - verso i poveri e verso i vari membri della Chiesa, che il Crisostomo cercherà di incanalare verso i primi (78), è esaltata più volte nelle fonti (79).

 

La vita ascetica vissuta con piena dedizione e la grande generosità verso i bisognosi, unite alla sua nobile nascita, indussero Nettario (80), vescovo di Costantinopoli dal 381 al 397, a ordinarla «diaconessa» malgrado la sua giovane età e la recente legge di Teodosio del 21 giugno 390 che, richiamandosi alla disposizione di 1 Tm 5, 9 sulle vedove, fissava a 60 anni l’età dell’ordinazione a diaconessa (81).

 

L’ordinazione veniva a coronare anni di intensa attività caritatevole (82) nella Chiesa di Costantinopoli e contemporaneamente rappresenta l’inizio di un maggiore impegno corrispondente al suo ministero. Le notizie delle fonti al riguardo, pur se scarne, sono tuttavia istruttive. Palladio nella Storia Lausiaca scrive riassuntivamente che «catechizzò molte donne» (83), dato che la Vita riprende con un’aggiunta tutta sua: «catechizzando molte donne non credenti e procurando loro i mezzi di sussistenza» (84). Commenta la Militello: «Dobbiamo perciò supporre - sia pure con tutte le limitazioni del contesto culturale - che essa svolgesse anche un ruolo di evangelizzazione» (85).

 

Sempre la Vita narra che Marina, a cui Olimpiade affidò «il suo gregge» di vergini, all’uscita dalle acque battesimali era stata da lei accolta (86): un compito liturgico questo che spettava alle diaconesse (87).

 

«Ma - nota con finezza la Militello - sono soprattutto il suo impegno di carità e le forme totali di disponibilità e di ospitalità che ce la configurano nel suo specifico diaconale» (88).

 

Giovanni Crisostomo, testimone fidato del suo spirito di carità e di accoglienza, lo ricorda con ammirazione in una sua lettera: «Dalla più tenera età fino a oggi, non hai cessato di nutrire Cristo quand’era affamato, di dargli da bere quand’era assetato, di vestirlo quand’era ignudo d’accoglierlo quand’era straniero... Non solo la tua casa è rimasta aperta a chiunque veniva, ma in ogni luogo della terra e del mare, sono stati molti a godere di quest’onore, grazie alla tua ospitalità» (89). Vescovi, sacerdoti, asceti, vergini e naturalmente poveri, nessuno poteva sottrarsi alla sua cristiana generosità (90). Con questo suo culto dell’ospitalità verso tutti Olimpiade offrirà inconsapevolmente agli avversari del Crisostomo un motivo per accusarlo (91).

 

Dopo la sua ordinazione Olimpiade fece costruire un monastero nell’angolo meridionale della Chiesa di Santa Sofia, collegato direttamente con essa da un corridoio, in cui si trasferì con le sue domestiche, 50 per l’esattezza, vissute fino allora nella verginità. Presto fu raggiunta da tre sue parenti, Elisanzia e le sue sorelle Martiria e Palladia, dalla nipote Olimpia e da un numero imprecisato di dame dell’aristocrazia senatoriale, che, sprezzando i beni della terra (92), avevano preferito il regno dei cieli (93). Il monastero giunse ad avere 250 membri (94).

 

Vita ascetica, preghiera continua, pratica della carità, rigida clausura (95), lettura giornaliera della Parola di Dio, ecco alcuni aspetti della vita del gruppo che hanno destato la meraviglia dell’anonimo autore della Vita (96). Secondo Dagron tuttavia «la casa di Olimpiade non è un monastero nel senso che il termine ha a Costantinopoli all’inizio del V secolo» (97).

 

Quando il 26 febbraio 398 Giovanni, il celebre e austero predicatore di Antiochia, eletto suo malgrado vescovo di Costantinopoli, fu consacrato e intronizzato (98) da Teofilo di Alessandria, che in seguito doveva rivelarsi un suo acerrimo avversario, grande e meritata era la fama di cui godeva Olimpiade. Lei e le sue compagne entrarono presto in sintonia con il nuovo vescovo e da quel momento furono sempre al suo fianco nelle molteplici iniziative prese per il bene della Chiesa. Con il loro aiuto Crisostomo poté avviare un concreto programma sociale costruendo ospedali, ospizi e ostelli.

 

L’affetto, la devozione, la sollecitudine e il rispetto che Olimpiade provava per il Crisostomo e che sappiamo ricambiati, trovano espressione nelle pagine di Niceforo Callisto. Lo storico bizantino scrive che essa «era soprattutto assai affezionata al Padre Crisostomo e sua confidente come nessun altro; era completamente sotto la sua influenza e pendeva dalla sua parola. Teneva in ordine le sue vesti, gli preparava quel suo cibo da asceta e gli offriva i propri servizi, com’era conveniente, assistendolo in tutte le altre cose; detto diversamente, era come un’altra Tecla alla sequela di Paolo» (99). La Vita precisa che il monastero e il vescovado erano separati solo da un muro, per cui il passaggio dall’uno all’altro avveniva rapidamente, e che Olimpiade si prese cura del Crisostomo non soltanto all’inizio del suo ministero episcopale, ma anche durante l’esilio e fino alla sua morte (100).

 

Voluto sul seggio di Costantinopoli dall’eunuco Eutropio, il potente del momento, Giovanni Crisostomo (101), al contrario del suo predecessore Nettario (102), non corrispose alle aspettative della Corte e degli intriganti di turno. La sua fedeltà all’ideale evangelico, il suo carattere austero, la decisione con cui intraprese la riforma del clero e del monachesimo, i suoi interventi contro vescovi indegni della loro missione, la fustigazione dei vizi e del lusso dei ricchi, a cominciare dalla famiglia imperiale, la sua predicazione sociale, la vicenda dei «lunghi Fratelli», crearono una netta divisione nella capitale: da una parte la stragrande maggioranza del popolo (103) e poche persone in­fluenti, dall’altra i detentori del potere politico - Eutropio, l’imperatrice Eudossia (104), ecc. - ed ecclesiastico, quest’ultimo incarnato nella persona dell’ambiguo patriarca di Alessandria, Teofilo. La frenetica attività di questi contro Crisostomo portò alla convocazione del «Sinodo della Quercia», in cui contro il vescovo di Costantinopoli furono formulati ben 29 capi d’accusa. Crisostomo fu deposto e condannato dal debole Arcadio all’esilio in Bitinia. Da lì fu presto richiamato a Costantinopoli, ma il suo carattere adamantino gli attirò di nuovo l’odio dei suoi non sopiti avversari, tra i quali si segnalarono Acacio di Beroea e Severiano di Gàbala, che strapparono all’imbelle Arcadio una nuova condanna all’esilio, questa volta definitivo.

 

Per evitare che il popolo insorgesse e venisse versato sangue innocente, gli fu consigliato di uscire di nascosto. Crisostomo salutò alcuni vescovi fedeli, radunati nella sagrestia, si diresse poi verso il Battistero, fece chiamare Olimpiade e le sue compagne e rivolse loro queste parole: «Venite qui, figlie, ascoltatemi. Ciò che mi riguardava volge al suo termine, lo vedo. Ho terminato la mia corsa e forse non vedrete più il mio volto. Questo vi raccomando: che nessuna di voi sia frenata nel suo amore di sempre verso la Chiesa; davanti a colui che, controvoglia e senza intrighi, sarà indotto a essere eletto con il consenso di tutti, chinate il capo come davanti a Giovanni; la Chiesa infatti non può restare senza vescovo. E così che possiate trovare misericordia. Ricordatevi di me nelle vostre preghiere» (105)

 

A queste parole, tutte si gettarono piangendo ai suoi piedi. Crisostomo incaricò uno dei sacerdoti di portarle via di lì per non allarmare maggiormente il popolo e, uscendo dalla porta orientale, si consegnò al drappello (106) che doveva scortarlo in esilio a Cucuso, «una piccola città dell’Armenia, molto isolata» (107), da cui nel 407, su ordine imperiale strappato ancora una volta dai suoi avversari, dovette partire per Pizio/Pitionto, una località assai remota sulla riva orientale del Mar Nero. Ma le difficoltà del viaggio ebbero ragione della salute piuttosto malferma del Crisostomo, che morì a Comana nel Ponto, il 14 settembre 407 (108).

 

Del viaggio e dei tre anni che ancora visse veniamo informati dalla fitta corrispondenza che intrattenne con persone a lui care, tra le quali Olimpiade, che da lontano lo assistette amorevolmente, gl’inviò somme di denaro per le sue opere di carità (109), si dette da fare perché fosse richiamato nella capitale (110) e stette in continua trepidazione per la sua salute e in preda alla tristezza per la sua lontananza.

 

Quando Crisostomo lasciò Costantinopoli, il 20 giugno 404, nella città scoppiarono disordini, durante i quali, non si sa da chi, fu incendiata la chiesa di Santa Sofia e il vicino palazzo del Senato. Dell’incendio furono accusati i «Giovanniti», i seguaci di Giovanni Crisostomo, che furono duramente perseguitati. Tra essi non potevano mancare Olimpiade e la sua comunità. Citata in giudizio, al prefetto Optato (111), che le chiese perché mai avesse appiccato fuoco alla chiesa, rispose con la fierezza dell’innocenza: «Non è questa l’occupazione della mia vita. Infatti, ho speso le mie sostanze, che erano cospicue, per la costruzione delle chiese di Dio» (112). Il prefetto allora, cambiando tattica, cercò di convincere Olimpiade e «altre donne» a entrare in comunione con il vescovo Arsacio, il successore designato del Crisostomo (113), promettendo loro la libertà. Le altre donne cedettero, ma Olimpiade, rifiutando l’indegna offerta, rispose: «Non compirò azioni non permesse ai fedeli» (114). E fu condannata a pagare una forte ammenda.

 

Date le avverse circostanze, Olimpiade preferì lasciare spontaneamente Costantinopoli e trasferirsi a Cizico. La Vita parla invece di un esilio a Nicomedia, la metropoli della Bitinia (115), dove morì dopo il 408. Anche le altre inquiline del monastero, affidato da Olimpiade alla guida di Marina, furono disperse e non poterono ritornarvi che nel 416, a pace avvenuta tra Attico, succeduto ad Arsacio, e i «Giovanniti».

 

La fedeltà di Olimpiade al Vangelo e al suo vescovo fu presto riconosciuta. La Storia Lausiaca narra che «coloro che abitano a Costantinopoli annoverano la vita di lei tra quelle dei confessori, poiché ella morì così e se ne andò al Signore mentre era impegnata nelle lotte conformi al volere di Dio» (116). La Chiesa greca celebra la sua festa il 25 luglio, giorno probabile della sua morte (117), mentre la latina la festeggia il 17 dicembre (118), giorno della traslazione delle sue reliquie.

 

I suoi resti furono sepolti nel monastero di S. Tommaso, nel borgo di Brochthoi (oggi Kandili) sulla riva asiatica del Bosforo (119). Dopo il suo incendio da parte dei persiani, tra il 616-626, Sergia, egumena del monastero fondato da Olimpiade (120), recatasi sul posto, recuperò le reliquie e provvide alla loro traslazione nel suo monastero (121).

Continua

Note

 

Sr. Giuseppina Battista, suora Pastorella, docente di Storia della Catechesi e di Teologia dell’educazione nell’Istituto di Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense, e di Catechesi alla Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Gregoriana, Roma.